«Caro giovanotto, ognuno di noi parla, e dopo aver parlato, riconosciamo quasi sempre che è stato invano, e ci riconduciamo disillusi in noi stessi, come un cane di notte alla sua cuccia, dopo aver abbajato a un’ombra» (L. Pirandello).
Ultima opera e incompiuta, terzo pannello del trittico sul mito, estremo esempio di teatro epico-collettivo: I giganti della montagna costituisce – in uno – il testamento artistico e politico di Pirandello. In esso possiamo infatti assistere a quello scontro decisivo che, dal libro VII di Repubblica infino a oggi, contrappone artisti o letterati o filosofi («la loro ridicola epopea dell’azione», com’ebbe a dire uno che di quella epopea rimase vittima, dopo essere stato carnefice) al volgo, al popolo – fantasmatiche figure – e a coloro che li manovrano. Da un canto ci sono Cotrone e gli Scalognati (il retrait du politique) più la compagnia della Contessa (la suddetta epopea che continua); dall’altro, il popolo e i Giganti (il loro impero della forza, il loro pachidermico trapestio). Tra i primi e i secondi – che nella Storia puntualmente si ripresentano – mai è corso buon sangue. O meglio: il problema è proprio questo: che, di tra loro, il sangue continua a correre – a scorrere.
Con uno scritto di Alberto Savinio